Locandina Film Un Giorno di Pioggia a New York

Un Giorno di Pioggia a New York

(A Rainy Day in New York)

Film

Commedia

Torna il 'sistema Allen' con una commedia caustica, incisiva e ineffabile, come la nascita di un sentimento.

diWoody Allen

conTimothée Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez, Jude Law, Rebecca Hall, Kelly Rohrbach, Suki Waterhouse, Diego Luna, Liev Schreiber, Annaleigh Ashford, Cherry Jones

durata: 92 min. produzione: U.S.A. (2019)

di Francesco Pozzo22 novembre 2019Voto: 7.5
 
C’è una scena in questo film che prova emblematicamente l’infinita universalità del cinema di Woody Allen. Ad un certo punto, il nuovo nevrotico e meditabondo alter-ego alleniano Gatsby Welles (detto tutto), un giovane Holden splendidamente interpretato da un Timothée Chalamet di usuale perfezione, dice alla sua bella: “A scuola ho sempre letto i libri che volevo io, non quelli che mi davano da leggere. Che vuoi che mi importasse di chi vincesse fra Beowulf e Grendel?”. Una grande verità. Valeva (e vale) per i libri, la musica, i film: è così, forse, che ci si forma un’indipendenza di pensiero, ed è proprio così che si arrivano a conoscere le opere dei grandi maestri, come appunto Woody Allen, imprescindibile faro spirituale che avrà anche alternato negli ultimi anni qualche alto e qualche basso (con una piccola e fortunatamente passeggera discesa, in particolare, dopo l’affascinante e ampiamente sottovalutato Cassandra’s Dream), ma considerato che i grandi amori non tramontano mai e che gli ultimi due monumentali film fatti (Café Society e Wonder Wheel, senza dimenticare gli ovvi splendori di Match Point e Blue Jasmine) sono fra i picchi più alti e luminosi della sua ricchissima e variegata filmografia, non si poteva che attendere con religiosa trepidazione ma anche con un velo di sottile inquietudine questo nuovo tassello filmico che è rimasto a sedimentare per due lunghi anni e che ha rischiato seriamente, mala tempora currunt, di non vedere mai la luce del giorno.

Andrà ovviamente come da copione: le malelingue e i generatori di luoghi comuni raglieranno le solite scemenze che Allen fa sempre lo stesso film, che non ha più nulla da dire e che gira film giusto per ingannare il tempo e per il gusto di farli (anche vero, in parte), che farebbe bene a ritirarsi e che il meglio l’ha dato quarant’anni fa con Manhattan e con gli altri capolavori della presunta maturità, ma sarebbe molto sbagliato e deleterio, perché questo A Rainy Day in New York, semplicemente, è un film raro, un miracolo di grazia e lucentezza che vola con ariosa leggerezza e con sguardo sognante e trasognato fra viuzze e meraviglie della venerata Grande Mela con un incanto ed una lepidezza che inumidiscono gli occhi e che sono uno specchio attraverso il quale Allen ci parla ancora una volta con levigato candore ed estrema e ficcante lucidità dell’amore e dei compromessi che presto o tardi accettiamo nelle nostre vite, dell’imprevedibilità delle passioni e dei percorsi che ci conducono alla maturità e ai rapporti importanti come a quelli fuggevoli della nostra esistenza, e lo fa con una purezza, una tenerezza ed una limpidezza che sono un qualcosa di prodigioso e rigenerante.

Ecco, c’è una caratteristica fondamentale che accomuna i grandi registi che varcano felicemente le porte della terza età: arrivare all’essenza delle cose senza fronzoli e giri inutili. Friedkin con Killer Joe, Polanski con J’Accuse, Haneke con Amour, Scorsese con The Irishman e le sue scorrevolissime tre ore e mezza di durata, Eastwood praticamente sempre e naturalmente il grande Woody, che come questo film mirabilmente conferma arricchisce la nutrita lista di maestri che come il vino migliorano invecchiando. Che riesca poi a farlo nella palude limacciosa di questo tetro ed avvilente momento storico, biecamente e veementemente boicottato dall’ipocrita, bigotta e sempre irriconoscente macchina hollywoodiana che gli blocca il film fino a farlo uscire solo adesso in Europa sommerso dalla morettiana bile bluastra di questo mostruoso e farneticante maccartismo 2.0, è un qualcosa di francamente insperato e, purtroppo, prezioso (si vedano anche le recenti e mai concluse traversie del già citato Polanski).

E nell’infinita meraviglia di questa gemma opalescente che ricorda a tratti l’amaro e multiforme carosello sulla precarietà dell’esistenza dei fluttuanti protagonisti di La Ronde di Schnitzler ed Ophüls, due cose in particolare trafiggono e disciolgono il cuore come una freccia di Cupido: la prima, sarà scontato dirlo ma si deve, è la fotografia, perché se questo film è così splendente, memorabile ed elegante (e lo stesso vale ovviamente per i due precedenti), è anche grazie e soprattutto al genio sfavillante ed essenziale del sempiterno Vittorio Storaro: perché il film sarà anche di Woody, ma è attraverso quell’armoniosa e sfolgorante luce dorata studiata fin nelle più impercettibili sfumature e ormai inscindibile dalla poetica alleniana che i sentimenti di questi personaggi vengono così brillantemente trasfigurati (notare come le tonalità di luce e colore cambino molto più rapidamente rispetto al solito per rappresentare al meglio le differenze spirituali e la costante mutevolezza delle loro emozioni), un qualcosa di magico e commovente che riporta alla mente gli abiti screziati dei protagonisti del capolavoro di Peter Greenaway Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, i cui colori cambiano improvvisamente adattandosi camaleonticamente al décor dei vari ambienti di pari passo con le contrastanti sensazioni di chi li indossa, scelte sublimi che ci ricordano con forza una verità fondamentale che si tende troppo spesso a dimenticare, ovvero che un grande direttore della fotografia non crea immagini belle per il mero gusto di farlo, ma avvalora ed eleva il film facendolo proprio e donandogli l'acqua della vita attraverso la propria ottica e la propria sensibilità.

Che dire dunque di una scena come quella in cui Storaro ed Allen (ormai a tutti gli effetti il più nobile erede di Fitzgerald) ci mostrano Chalamet e Selena Gomez (ma quanto è brava?) che si baciano attraverso i vetri smerigliati della vettura parcheggiata in un set cinematografico con una discrezione ed una morbidezza che evoca lo stupefacente movimento di macchina che Zemeckis compie durante la tempesta di sabbia del suo Allied, con Pitt e la Cotillard intrappolati anch’essi in un’automobile che racchiude e poi disvela l’attimo eterno della nascita del desiderio? Che dire della lucente semplicità e dell’inarrivabile giustezza dei close-ups o della radiosa e cangiante luce carminia che invade lo schermo bagnando i volti di queste magnifiche creature come a carpire e a rivelarci per un istante il mistero dell’amore e della vita? Pezzi di bravura che lasciano ogni volta esterrefatti, come se il mondo si fermasse e si giungesse per un attimo ad un fugace ed indelebile momento di grazia e verità.

La seconda cosa, invece (che è un’altra strepitosa pernacchia in faccia a quella nemmeno troppo esigua schiera di sciagurati che accusano Allen di essere un regista maschilista quando non misogino, ma in quale mondo?), è l’evidente ed invidiabile maestria con cui quest’uomo riprende, accarezza ed immortala le donne, in particolare Elle Fanning e Selena Gomez, belle perché vere, tonde, imperfette e con i loro ben visibili difetti (guardate le orecchie e le cosce della Fanning) e proprio per questo così autentiche e lontane dalle belle figurine senza vita che si vedono troppo spesso sullo schermo o sulle smaltate riviste di presunta grazia e bellezza: donne leggere, solari ed eteree che sembrano compenetrarsi con le meravigliose figure femminili che i due innamorati osservano divaganti nel Metropolitan Museum come a congiungersi all’armonia di un’arcadia passata che illumina col suo splendore i dubbi e le incertezze del presente.

Lessi da qualche parte che un regista fa lo stesso film per tutta la vita, e che solo a fine carriera, quando il sipario si chiude e le luci si spengono, riusciamo a vedere il disegno complessivo. Non c’è niente di più vero. Questo film, in fondo, parla sempre delle stesse cose viste e straviste nel cinema di Allen: dell’importanza del romanticismo, della necessità degli affetti e delle emozioni che colorano e danno un senso al grigiore delle nostre vite, della diffidenza verso i riflettori e la scintillante vacuità di Hollywood pur lasciandosi incantare dagli splendidi film che produceva e produce, delle contraddizioni insite nell’amore che il più delle volte non si concretizza e che se lo fa lo fa sempre con un fondo di tristezza e malinconia, degli slanci e delle fragilità, delle contraddizioni e delle debolezze, delle grazie e delle miserie che accomunano noi tutti e delle illusioni della realtà stemperate dall’ironia e imperlate dall’ambrata luce di un’era perduta che non possiamo recuperare e che forse non è nemmeno mai esistita, se non nei nostri sogni.

Ma lo fa con una dolcezza, una comprensione ed una delicatezza che scaldano il cuore e rischiarano l’esistenza, perché la verità è che dopo i film di Allen viene voglia di amare, di vivere, di sognare.

Perciò guardate questo film e guardate i film di Woody Allen, perché sono un balsamo per l’anima.

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